di Emanuele Maffei

Prima il diploma all’Accademia di Belle Arti di Urbino nella sez. scultura (1983), dove attualmente è docente di tecniche di fonderia. Poi l’insegnamento presso gli istituti Statali d’Arte di Pesaro e Urbino e nel ’95 al T.A.M (trattamento artistico dei metalli) di Pietrarubbia. Paolo Soro, sardo di nascita ma residente da vent’anni a Carpegna, ha una percorso pieno di personali e collettive in tutta Italia (nel 1994 una personale a Roma dal titolo “Quale sarà la direzione presa da Ulisse” segna l’approdo ad un linguaggio ben delineato). Con parole misurate, guardando i piccoli bronzi che incendiano le pareti, pensa ad alta voce:

Tempo fa, dovendo presentare le mie opere agli studenti dell’Accademia, mi accorsi che non parlavo più da autore. O meglio vivevo l’autorialità come memoria, ero io stesso fruitore delle mie opere. Sono convinto che se anche tornassi 50 volte sui miei lavori non riuscirei a ritrovare l’attimo che mi aveva provocato per la realizzazione. Allora è necessario fare un passo indietro e mettere avanti le proprie creazioni, tentare un distacco. Solo cosi ho capito che la “paternità” è graduale, si diventa padri nella misura in cui si prende coscienza.

Come si “educano” le sculture? 
Ci sono delle immagini che rimandano a luoghi e figure ben precise della propria storia, luoghi non propriamente fisici, ma anche emozionali, tradizioni, cultura, credo religioso, valori costituenti dell’essere. La speranza è sempre quella di trovare una condivisione tra i fruitori delle proprie opere anche se rimane la libertà di ciascuno di re-interpretare quei segni.

Il “buon” esempio è dato dalla simbologia, dagli elementi reiterati?
Si, questi riguardano la mia persona, la mia visione del mondo. Però gli stessi simboli possono caricarsi di significati diversi. Oggigiorno la televisione crea o comunica un’infinita di simboli, di stili, culture (nel bene o nel male); così, ad esempio, alcuni miei studenti che come me vengono dalla Sardegna hanno uno sguardo a culture di altri popoli. Lo si vede sin dal modo di vestire, il loro bagaglio culturale è cambiato.

E,lei invece, ha radici che sviluppano dalla terra ?
I miei lavori hanno origini diverse: una stilistica, che viene dalla Sardegna, e più in generale dai bronzi delle culture mediterranee, e dall’influenza e rilettura di alcuni maestri come Giacometti, Calder e David Smith. Di lì ho preso il mio modo plastico di raccontare, anche attraverso il modellato. Poi c’è il contenuto che viene in parte dalla storia culturale europea, “qualcuno” direbbe “greca, romana, barbara, cristiana”, ma più istintivamente viene dalla perenne domanda sull’esistenza e sull’essere di cui la storia dell’Italia, dell’Europa e del mediterraneo è pregna nelle sue origini culturali e artistiche. Più umilmente cerco di fare quello che facevano gli autori dei bronzetti sardi che raccontavano la vita dei villaggi. Il guerriero e soprattutto l’orante non rappresentavano un preciso personaggio, ma degli uomini nella loro cultura e nella loro domanda d’essere.

Stiamo parlando di arte sacra ?
Non direi arte sacra; l’arte sacra richiama ad un’iconografia ben precisa, legata ad un culto ben preciso, mentre credo sia più giusto parlare di sacralità nell’arte. Cioè un punto interrogativo intorno all’esperienza dell’uomo su questa terra. Se in un’opera do forza alla maternità non posso definirla arte sacra ma indubbiamente faccio bene a parlare di sacralità nell’arte nel momento in cui vengono rappresentati dei valori e la bellezza che riconosce di essi. C’é insomma un senso religioso di fondo.

Quali sono le responsabilità dell’artista verso la società ?
Non esiste una responsabilità dell’artista come artista, ma dell’uomo in quanto tale. L’unica responsabilità come artista semmai è verso se stessi, cercando di essere autentici. L’autenticità è fondamentale per non accondiscendere ad una visione distorta, per non scendere a compromessi con il mondo e vivere a pieno il proprio tempo, criticandolo o valorizzandolo. Durante i periodi totalitari ci sono stati artisti che si sono manifestati in modo omologante non esprimendo a pieno la propria creatività e altri che hanno trovato il giusto distacco. Si può essere accondiscendenti persino ad un clima culturale, omologandosi. Ci si può anche non omologare e allo stesso tempo tacere. Ecco, credo che oggi tanti artisti se ne stiano zitti, continuando a lavorare ma in sostanza concorrono all’appiattimento di una società globalizzata. Molti di loro in fondo pensano che l’arte sia morta. Per quanto mi riguarda l’arte non può morire in quanto parte del dna dell’uomo, cioè del suo bisogno del “bello”, ma può vivere sottocoperta di fronte alla globalizzazione culturale.

Qualche rimedio ?
Non esiste e non ho una ricetta precostituita, un nuovo movimento artistico potrebbe -sottolineo potrebbe- portare al cambiamento? Di cosa? Esiste ancora il riconoscimento delle differenze culturali che costituiscono i popoli e che sono sempre state stimolo nelle tematiche artistiche?

Il bollettino medico dice: impara l’arte e mettila… sul mercato.
Il rapporto tra arte e mercato è controverso, anzi molta arte la determina il mercato. Tanti cercano delle linee estetiche che possano essere commerciabili. Detto questo, non escludo che possano venirne fuori oggetti anche interessanti e all’avanguardia ma dilaga anche molto manierismo, inevitabile conseguenza ereditaria del novecento. La linea culturale ed estetica che va in galleria e nelle collezioni, non la fa quasi più esclusivamente l’artista, intervengono un insieme di altri parametri. Senza dubbio, anche in passato, il committente privato (ormai pubblico) voleva influenzare l’opera. Ma se prima ad interessarlo era il contenuto, oggi tenta di plasmare lo stile e non lascia maturare l’artista.

Se le dico bronzo, cosa le viene in mente?
Premetto che a me piacciono tutti i materiali e li utilizzo secondo le necessità estetiche e poetiche dell’opera. Scelgo il bronzo perché nella sua lavorazione c’è di mezzo il modellato che mi dà la possibilità di raccontare un’immagine fin nei particolari, con pochi segni. Il bronzo ha l’immediatezza che serve ad un “cantastorie”; come al fotografo serve fissare l’attimo nel fotogramma, anch’io devo fissare immediatamente quel che vedo, sento la necessità di fermare subito le cose. Posso dire che il materiale é una “forma mentis”.

Per il Don Chisciotte, titolo di una sua opera del 1993, è tutto il mondo ad essere una “forma mentis”. Chi è, un artista che non usa le mani ?
E’ l’uomo che non va oltre il proprio egoismo, (senza polemizzare con l’arte concettuale o con altre forme di “arte”), un idealista che perde il senso della realtà che è materia, è un sognatore di castelli in aria, come un bambino, però con la facoltà di decidere senza riferimenti! Il mio Don Chisciotte mostra la mancanza di responsabilità intellettuale. Anche Don Chisciotte vive la realtà attraverso il sogno, la trasfigura. L’ho realizzato su di un cavallo a dondolo che lo costringe a rimanere fermo sulla propria realtà. Il cavallo è orientato dalla parte opposta del cavaliere e lo scudo copre le spalle sguarnite di Don Chisciotte mentre lo sguardo è orientato al passato… non sempre le rivoluzioni culturali sono veramente rivoluzioni.

Quindi un pensiero che si fa l’eco. Cosa manca?
Manca lo “sguardo” all’uomo, uno sguardo reale, concreto, non ideologico, non un “umanismo” degradante o idealista (come in alcune correnti del pensiero o eventi storici del ‘900), ma un uomo proteso in avanti, diverso da Don Chisciotte, perché si avvale della sua storia, del suo passato per generare un futuro vicino (attento) all’uomo.