INTERA RACCOLTA DEI TESTI CRITICI

“Quale sarà la direzione presa da Ulisse” (1994)

di Marco Cangiotti

La genuinità-profondità artistica di Paolo Soro credo che possa essere tutta svelata, e anche ben detta, in un’unica osservazione che si impone di fronte alle sue opere: in esse è rappresentata una esplicita e consapevole metafisica della spazialità. Non sembri un ossimoro questa definizione, e ancor meno un impoverimento reciproco dei due termini accostati, essere e corpo; infatti, nella misura in cui l’arte figurativa – a differenza da quella poetica e da quella musicale – è rappresentazione per immagini, la sua essenza costitutiva è proprio quella data dal connubio dell’essere con lo spazio. Solo che, spesso e soprattutto nell’arte contemporanea, questo necessario incontro è dettato dall’oggetto stesso in una più o meno evidente inconsapevolezza del soggetto, dell’artista, mentre nel caso di Paolo Soro la stessa necessaria forma dell’impresa figurativa diventa tematica, ossia dominata, voluta, pensata dall’artista, che così si rivela pienamente consapevole del proprio gesto. Metafisica della spazialità: come dire che la convinzione profonda di questa opera scultorea, convinzione che la genera e che, allo stesso tempo, in essa si manifesta, è tutta racchiusa nella tesi che il corpo sia l’involucro adatto dell’essere, il luogo stesso in cui questi trova efficace espressione e gloria. La gloria della bellezza certo, ma di quel tipo assoluto di bellezza che risiede nel fatto stesso di avere una forma visibile, carnale, materiale. In questa bellezza non c’è spazio per nulla di laido, e così tanto l’amore quanto il dolore, tanto il trionfo quanto la pena, possono essere accolti come portento dell’essere. E’ evidente che la teologia che innerva tutto ciò è una teologia della creazione con quella sua sanzione definitiva data dalla teologia dell’incarnazione. Nella creazione l’essere assume lo spazio, lo elegge a propria attualità, e non se ne pente: valde bona ! Nella incarnazione l’essere riassume di nuovo lo spazio per sottrarlo al nemico che l’insidia: Quid quaeritis viventem cum mortuis ? non est hic, sed surrexit. Ma c’è un di più, e va detto. Nelle sculture di Paolo Soro il corpo che letteralmente domina è il corpo umano, e anche la dove esso pare assente – vedi L’Arca o La Cattedrale – è in realtà presente nella sua forma che direi non immediata ma culturale. E ciò non è casuale, ma è un prodotto del gusto, inteso nella sua piena accezione kantiana di giudizio oggettivo che però riguarda la storia, la dimensione morale e non quella naturale, a cui pensa la scienza. Il giudizio o il gusto di Paolo Soro individua nella persona umana il paradigma della metafisica della spazialità, perché in essa l’incontro fra l’essere e il corpo è del tutto adeguato in virtù della consapevolezza, o se si vuole del perfetto sinolo che qui si realizza: lo spirito che si riunisce alla carne. Qui, in questo sinolo perfetto si ha il frutto maturo dell’incontro, a cui abbiamo da sempre dato il nome di storia. E piene di storia sono le figure di Paolo Soro, nella felice invenzione di rappresentarle tutte, senza esclusione di alcuna, impegnate in un atto. Sono tutte figure che agiscono, che si muovono e con ciò ci dicono che la metafisica della spazialità non è statica, ma storica ossia altamente dinamica, in actus essendi, e quindi anche libera, aperta alle opposte direzioni. Per questo, il tutto si carica della drammaticità, della domanda aperta che solo la libertà pone in essere veramente, perché il legame può essere spezzato, perché sempre la morte è in agguato, e così diventa decisivo chiedersi, ogni volta chiedersi: ma quale sarà la direzione presa da Ulisse ?


“Nostalgia del Padre” (1996)

di Stanislaw Grygiel

Se esistere significa ritornare alla casa familiare, se archetipo di questo ritornare è il viaggio di Ulisse all’Itaca oppure, in fin dei conti, il camminare di Abramo e quello degli Ebrei nel deserto orientati verso la Terra Promessa che non è altro che la casa del Padre, Paolo Soro è un compagno la cui laboriosa convivenza con il bello ci aiuta ad entrare più profondamente all’interno del nostro essere e leggervi il nostro destino. Esso si compie nel dialogo della Promessa che ci chiama dalla lontana Itaca, anzi dalla Terra Promessa, e della nostra speranza con la quale rispondiamo alla Parola di Colui che lì ci aspetta. La scultura di Soro, riempiendo lo spazio in un modo proprio del bello che, provenendo dal di là dello spazio, trascende la geografia. Trascendendola, apre quella dimensione della realtà in cui l’uomo viene riconciliato con se stesso. Infatti, siamo noi stessi nella misura in cui ritorniamo alla casa familiare, indicata dal nostro cognome; la nostra identità si rivela nella nostra figliolanza. E il nostro primo cognome è quello in cui riflettendosi si rivela il Volto del Padre. Come esprimere la nostra identità che confina con il Divino? Come esprimere l’identità della persona il cui essere amore irripetibile è un uno che nella sua totalità ad-veniente parla dell’Uno Divino dove l’Amore è Pensiero e il Pensiero è Amore? Sono le domande che tormentano Paolo Soro. Allo stesso tempo, però, sgorga da esse l’acqua che ristora le sue forze quando, “stanco del viaggio” (Giov. 4, 6), siede presso qualche pozzo, aspettando il Samaritano che lo comprenderà e che compierà ciò che egli stesso ha solo vagamente abbozzato col pensiero e colla gradina. Paolo Soro ritorna alla casa paterna poeticamente, cioè mette in rilievo il bello che trasfigurando la materia ci avvicina a quel luogo da dove esso emana. Oserei dire che egli trasmette alla materia il proprio sognare l’Alterità. Ed è proprio questo sognare che rende bella la materia toccata dal pensiero e dalla mano di Paolo Soro. Ogni scultura di Soro racconta la storia che è la vita dell’uomo, la storia dell’amore e della sofferenza, la storia della figliolanza dell’uomo e, quindi, della Paternità e della Maternità di cui la nostra paternità e la nostra maternità non sono che immagini annebbiate; la storia in cui la morte, l’ultimo atto dell’amore filiale da compiere, inizia la vita nell’Uno finora da noi desiderato. Guardiamo ed ascoltiamo con attenzione questa opera non facile; questa parola ci aiuterà a comprendere meglio il nostro desiderio di essere sicché in questo viaggio sarà più facile per noi prendere la giusta direzione.


“Il richiamo degli archetipi” (1995)

[postilla per Paolo Soro]

di Massimo Bignardi

Le piccole sculture in bronzo realizzate di recente da Paolo Soro, allineate l’una accanto all’altra sugli scaffali dello studio a Carpegna, ci parlano della sua terra nativa, del magico mondo della cultura nuragica, dei riti votivi o di quelli che ricordano esorcismi di lontana origine paleolitica. È un repertorio quello proposto dall’artista sardo, ormai da tempo marchigiano, che spazia in più direzioni, ora sondando il fertile terreno dell’iconografia “domestica” nella seducente funzione di iniziatrice dell’immaginario come in La Cattedra del 1991 o anche in Donna carriola del 1993; ora lasciando affiorare le forme dettate dalla memoria antropologica, di racconti plasmati dall’argilla come per la bellissima Arca del 1991; ora riscoprendo il valore e la funzione dell’archetipo come è per il Grande Padre e per l’Archetipo femminile, opere entrambe del 1991. per Paolo Soro la scultura è il luogo ideale ove poter tessere i fili tra il presente e la sua storia , nel giusto equilibrio di un dettato compositivo che sia, innanzitutto, espressione di quella coscienza che anima ed agita questi ultimi anni del secondo millennio. Nell’artista non c’è nessun tentativo di cedere al piacere formale di un “primitivismo”, ormai divenuto di maniera nelle tante declinazioni del neoespressionismo, ne tantomeno di strizzare l’occhio ad una sorta di litografia “mediterranea” scoprendo nuove ed alternative strade a quanti affondano, con i ben noti risultati del “citazionismo” nostrano, nell’abbecedario della cultura classica greca. Per Soro il processo creativo non è altro che il risultato di un attraversamento di un nascosto “spazio” genetico; di quel luogo nel quale i suoni di antiche nenie, i rumori del vento, i ritmi e i colori prendono corpo e diventano magicamente le pulsioni che danno vita alle mani. Piccole statuine in bronzo come il bellissimo Don Chisciotte del 1993 o come la Portatrice di Doni dello stesso anno, richiamano, quasi sagome filiformi, gli allungati e snelli guerrieri nuragici provenienti dai centri di Albini, di Serri o di Usellus. Soro tenta di recuperare quel patrimonio culturale che serpeggia sul fondo roccioso del Mediterraneo, quei fili che costeggiano l’arcaismo greco, cercando in essi un rapporto con il mondo moderno, tentando, cioè, di sondare la sfera dell’animismo: il suo lavoro guarda ad un tempo futuro, ad un vento classico, inteso come vento di una nuova etica, capace di restituire alle forme dell’arte quell’anima persa nei rivoli delle mode.


Riflessioni (1991)

di Silvia Cuppini

Ogni scultura Di Paolo Soro propone una gestualità antica e rituale dell’idolo sia che la forma sia compressa e racchiusa, sia che cerchi la sua liberazione nell’instabile appoggio su tre punti o nel volo. In Soro convivono, come è stato sotolineato da Maria Stella Sguanci, due tensioni: una, volta alla stabilità e alla conservazione della forma, l’altra, volta al dinamismo della figura nello spazio. L’entropia visiva nella dimensione psichica dello spazio, lo “sguardo al di fuori” di Vito Bucciarelli, che Soro incontra all’Accademia di Urbino, si sono coniugate con la radice profonda della tradizione dell’isola da cui l’artista è partito. La visione del satellite artificiale e la visione della terra sono le premesse da cui la ricerca più personale di Soro ha iniziato il suo percorso., ma l’artista oggi intende che la sua scultura possa diventare una delle possibili risposte alle istanze dell’uomo sulle ragioni dell’esistenza. Il gesto è racchiuso nella materia non per esprimere la creatività dell’artista, ma la disponibilità dello stesso a farsi strumento di comunicazione del mistero della creatura.


“Ricerche 90”

di Mariastella Sguanci

Primitivo: primo periodo di ogni ciclo e di ogni civiltà, segno che ricorre nei tempi e nei luoghi, moto universale che sospinge l’uomo a rimodellare l’universo secondo le proprie rinnovate capacità creative alla ricerca del significato pieno dell’esistenza. Nella produzione artistica di Paolo Soro è evidente questa bipolarità, tra remoto e presente, tra assoluto e contingente, e la sua tendenza a ritrovare, ordinare, prefigurare, il mondo delle realtà immaginative ponendolo in rapporto con le lontane memorie e le attuali esperienze rivela il bisogno, insito nell’uomo, di abbandonare la quotidiana orizzontalità dell’esistere per riscoprire, attraverso l’intuizione dell’infinito, la dimensione verticale dell’essere. I materiali che Paolo Soro utilizza per le sue opere sono quelli appartenenti alla civiltà agreste (legno, pietra, ferro, bronzo) ma le forze opposte che percorrono le strutture ricostituendosi a volte in precario equilibrio, in strappo, o in stasi, sono le stesse che dinamizzano il nostro agire e che determinano il nostro sentirci protesi tra cielo e terra, tra conquista e sconfitta. Così lo scultore innalza il suo segno che è missile e freccia contenente sulla sommità l’occhio: un gesto primordiale comprendente nel suo manifestarsi il desiderio di essere testimone e strumento del presente, un desiderio che trasforma l’oggetto plastico in antenna eretta per percepire i venti del futuro, in arco teso per proiettare l’uomo – dardo verso spazi sconosciuti, in “messaggero” e “profeta” di nuove parole, in “angelo fuggiasco” che si protende per staccarsi dal punto fermo che lo stringe a sé opponendo il volo vuoto delle sue ali di ferro alla salda presenza della pietra e in “portatore di pesi” che riconduce entro la stabilità delle sue coordinate ogni moto reale, ogni esistenza razionale e spirituale, rendendo vana, per contrasto, la pretesa dell’uomo di proclamarsi indipendente da ciò che per sua natura si costituisce come unica origine e forma del tutto.


“Genesi originaria” (1991)

di Bravi Loretta

“Nella produzione artistica di Paolo Soro è evidente la bipolarità tra remoto e presente, tra assoluto e contingente e la sua tendenza a ritrovare, ordinare, prefigurare, il mondo delle realtà immaginative ponendolo in rapporto con le lontane memorie e le attuali esperienze rivela il bisogno, insito nell’uomo, di abbandonare la quotidiana orizzontalità dell’esistere per riscoprire, attraverso l’intuizione dell’infinito, la dimensione verticale dell’essere” (Sguanci.M). Con queste osservazioni attente è stata presentata una delle mostre di Paolo Soro, osservazioni che si calano con intuito nel vivo dell’esperienza umana e artistica dello scultore, riuscendo ad instaurare un rapporto di “simpatia” (syimpàtheia) tra artista e critico ormai inusuale e difficile in un tempo dove fiumi di parole sterili e insufficienti tendono a colmare la lacuna dell’incomunicabilità tra queste due esperienze. Questa volta i due segni (la parola e l’opera d’arte) comunicano perché attraverso un incontro sincero e semplice viene messa a tema l’esistenza umana con la sua sete di verità. E’ questo un punto nodale nell’esperienza artistica di P.S., schivo da sempre verso quelle che defi­nisce “poetiche d’arte” che circolano ma non provocano nè stimolano un artista, costituendo invece una lettura, un’analisi della nostra società spesso arida e desolante. Egli non vuole ridursi al rifiuto del reale, nè adeguarsi ad una banalizzazione del reale stesso. Afferma infatti: “Sento l’esigenza di ridurre l’ostilità verso le tendenze espressive dell’arte contemporanea, ostilità dovuta a scetticismo e qualunquismo; vivo e opero in questo quadro storico,in questa società e non potrei creare sentendomi distruttore di me stesso. Oggi però avere una visione del reale pressoché simile non basta a far comunicare gli uomini tra loro, se si cerca un dialogo dev’esserci un bisogno che generi un confronto, un paragone, un giudizio. Andare oltre le ideologie, ricostruire dopo la caduta delle ideologie, svincolarsi umanamente e artisticamente dalla impersonalità ed inespressività, per me ha significato in questi anni una cosa molto semplice: operare una ricerca, personale e con pochi, per ricomprendere il mio essere uomo e basta”. L’opera di P.S. parte da queste considerazioni preliminari e si articola sulla “bipolarità” (cui accennavamo all’inizio), “bipolarità” che genera una tensione visibile e permanente nell’opera, una tensione che esula dall’essere angoscia psicologica ed emotiva basata sul rifiuto o sulla reazione al reale, o dall’essere ricerca inquieta e spasmodica; la tensione che percorre l’opera dell’artista si prefigura piuttosto come desiderio e passione di sperimentare “la dimensione verticale dell’essere”. L’opera di P.S. è conflittuale nella bipolarità perché è presente l’elemento della lotta (“angelo fuggiasco” “angelo mancato”) ma serena perché scaturisce dalla scelta, netta e quotidiana, di addentrarsi in tale lotta per ravvisare i veri lineamenti dell’esperienza umana (“uomo che cerca se stesso” “l’arca”). Da qui si delinea un cammino che porta l’uomo verso l’affascinante e sofferto incontro con il “mistero”, un mistero che si schiude e si manifesta all’uomo rivelandosi nella quotidianità (“l’incontro necessario”). L’arte di Soro si inserisce così nella storia non volendo restare un rifugio individuale bensì divenire messaggio comunicativo. Questo è il “moto”, questa è la ricerca che da anni è stata fissata (fermata): l’uomo e il volo (“Icaro”), l’uomo arma di se stesso (“despota” “orbita di potere”), ricerca che diventa esigenza radicale di affrontare i temi costitutivi dell’essere umano: il lavoro,la nostalgia, la fede, l’appartenenza, la paternità, la maternità l’offerta (“operaio” “il profeta” “il cammino di Abramo” “angelo mancato” “angelo fuggiasco” “angelo distratto” “angelo materno” “il grande padre” “archetipo femminile” “figura paterna” “figura materna” “mendicus licitator” “nostalgia di Tommaso” “portatrice di doni” “Ulisse” “l’emigrante”…). Così l’artista fissa gli elementi costitutivi del cammino intrapreso: “In genere l’uomo è affascinato da cose create da lui stesso e non va oltre perché gli fanno intuire l’infinito ma ancora in uno spazio di finito; invece questa angosciante tendenza dell’uomo verso un’appartenente libertà lascia uno spazio di mistero che non ha confini ma allo stesso tempo pone dei limiti alla temporalità umana. Sono affascinato da questa ricerca dell’uomo, da questo cammino dove l’uomo prende coscienza di ruotare intorno a scoperte e conquiste sempre relative, rivedibili e perfezionabili, fino a diventare schiavo di se stesso e del suo pensiero”. La tematica di Soro diviene perciò quella della “bipolarità” non solo come tensione ma come lotta tra due appartenenze (dell’uomo a se stesso e dell’uomo aperto al mistero). “Scolpire per me è manipolare il materiale non per creare ma per ripercorrere quell’attimo dell’origine che è stata la creazione della terra e degli esseri viventi. Questo è diventato un cammino,un tentativo di visualizzare attraverso migliaia e milioni di frammenti l’essenza stessa dell’uomo. Ogni essere umano costruisce attraverso dei frammenti e anch’io non faccio altro che riproporne alcuni, espressioni e testimoni della traccia creativa che il Creatore ha lasciato in noi facendoci a Sua immagine. Una modalità ideale per ripercorrere tale cammino non esiste, si percorre quella che risulta essere più congeniale alla persona; scolpire è lo strumento che mi permette di fermare dei pensieri, di materializzare delle idee”. E’ la testimonianza di un’esperienza umana e artistica in atto, presente a se stessa perché originaria, primitiva e quindi autentica, è la riscoperta della domanda “prima” che l’uomo ha sulla propria esistenza di creatura. E così, fedelmente, il tentativo di risposta dell’artista si nutre di elementi primitivi, naturali, che appartengono all’uomo, alla civiltà agreste (legno, pietra, ferro, bronzo, vinco); è legato ad essi con il vincolo dell’uomo sardo, uomo della terra e dell’acqua, granitico e incontaminato, silenzioso e umile, che ama la natura e lotta con essa per ricongiungersi alla genesi originaria.


“Su più solida barca” (1992)

di Bruno Cantarini

Le piccole sculture in bronzo che Paolo Soro, con fine manualità, modella prima sulla cera, narrano fondamentalmente un tema senza tempo (perché di tutti i tempi)e dalle dinamiche profonde (in quanto attaccato alla radice dell’essere): il dramma esistenziale del rapporto fra l’uomo ed il proprio destino, della domanda – mai quieta – sul significato ultimo di sé e del mondo. A proposito, già nel Fedone, cosi affrontava la questione Platone: “Su questo problema non c’è che una sola cosa da fare di queste tre: o apprendere da altri come stanno le cose; o scoprirlo da sé; o, se ciò è impossibile, accogliere la migliore e la meno contestabile delle idee umane, e su questa lasciarsi trasportare come su una zattera, arrischiando così la traversata della vita; salvo che uno non possa fare il tragitto, con maggior sicurezza e con minor pericolo, su più solida barca, cioè con qualche divina rivelazione”. In questo viaggio sul mare dell’esistenza, Soro invia dunque imbarcazioni differenti: dalla snella nave d’Ulisse – infaticabile nocchiero delle mille traversate a seguir “virtute e conoscenza” – alla mitica arca, sospinta per grazia alla salvezza dall’ala divina. E’ su questa che l’artista idealmente s’imbarca, conducendo finalmente ad unità i tanti volti che, sulle terre d’approdo, s’aggirano, consumati dalla domanda ineludibile che brucia dentro: eroi e antieroi, angeli e demoni, Don Chisciotte e Alce Nero, Abramo e Parsifal: cavalieri tutti del Nulla o dell’Eterno. Queste esili, affascinanti opere scultoree, concentrano in se stesse la polvere di tempi arcani, fanno baluginare il trascorrere della storia, rivitalizzano – per echi suggestivi- forme e culture ataviche, e la patina verdastra che talvolta le avvolge sembra indicare la certezza d’immortalità che vivifica l’anima dell’artista. Nei disegni, poi, e soprattutto nelle incisioni, l’idea bozzettistica prende invece consistenza enorme nel segno, dove linee di forza intense e graffianti delineano figure di estrema secchezza ed incisività.In queste carte Soro evidenzia la sua bella capacità sintetica, la facilità nel dar corpo immediato all’intuizione, la duttilità espressiva: ogni segno è un segnale di percorso, proposta direzionale; ancora, soprattutto, ogni segno concentra e dilata energia, pronta a forgiare, matericamente, nuovi, antichi simboli.


Riflessioni (1985)

di Bruno Ceci

L’interrogativo che Filiberto Menna rilancia in un recente scritto “.L’Artista e la storia dell’arte”, cioè se il presente può essere vissuto senza una intenzionalità in qualche modo aperta sul futuro, coglie certamente l’imbarazzo di quanti, soprattutto giovani, stentano a ritrovarsi nel presente panorama artistico, che tendenzialmente sembra fare dell’arte il luogo dove sempre meno le problematiche artistiche improntano, il linguaggio figurativo, ma l’atelier sofisticato dove si confezionano raffinati modelli e schemi. Al contrario il rapporto critico con il presente comporta necessariamente la rimozione di codici acquisiti per liberare il linguaggio verso le dimensioni dell’imprevisto e del fantastico. In questo senso credo che la ricerca di tanti giovani artisti vada configurandosi verso nuovi con­testi linguistici, la conferma lampante i lavori di Soro Paolo e Rocco Natale che riflettono una situazione in movimento che l’Accademia, per quanto le compete, ha tutt’altro che stigmatizzato, ma assecondato ampliando il già vivo dibattito interno con l’apporto di critici e artisti autorevoli, e nella disponibilità del corpo docente ad elargire la propria esperienza per capire, vivere e produrre con l’allievo, nel pieno rispetto della sua individualità. In un rapporto dialettico dove le parti concorrono liberamente, ma non confusamente, a generare contenuti nuovi. E’ indubitabile che di questo retroterra culturale vivacissimo l’opera plastica di Soro si è avvalsa pur seguendo un suo preciso itinerario artistico che lo ha portato a raggiungere una fase espressiva compiuta. Tale ricerca, pur ripudiando la figurazione tradizionale, avverte ancora la necessità di iconicizzare attraverso forme estremamente traslate il proprio spazio, esocosmo in cui l’uomo/uccello si libra in volo. Tematica non nuova nella storia dell’arte soprattutto se messa in relazione alle tante varianti dell'”Uccello nello spazio” di Brancusi; e l’artista rumeno è stato sicuro referente nella formazione di Paolo, pronto a sottoscrivere senza riserve quanto Brancusi ha detto: “Per tutta la vita non ho cercato che l’essenza del volo. II volo, che felicità!”. Tematica del volo, e quindi poetica del ferro e di materiali eterogenei informano una serie di lavori visualizzati nella loro prospettiva dinamica, da un Icaro del XX’ secolo colto nell’atto di slanciarsi nel vuoto al salto saettante di un atleta, all’aereo volo di uomini/uccello, alla ricaduta perpendicolare e armonica di un tuffatore, riportata altresì in pittura con esiti di sottilissimo decorativismo. Opere che parlano da sé, così aperte ed esplicative che rifuggono da prevaricazioni e proclami, ciononostante mi azzardo ad attraversare i passaggi più qualificanti. Le figure che saettano come segni – forza lo spazio, inquietandolo, risultano essenzialmente traslate e vivono in funzione delle loro pose e dei loro slanci, figure come vettori, vive cioè nel gettarsi in un atto quintessenziale.. E questa loro condizione esistenziale, le libera da ogni pesantezza plastica rendendole delicate sagome aeree, create per l’aria e la luce degli spazi infiniti. Gli stessi supporti esultano dal loro limite funzionale, integrandosi quali elementi essenziali del sistema formale. L’uso preferenziale di materiale forgiato nella realizzazione dei supporti si amalgama felicemente con la ceramica delle figure, in presenza di una manualità artigianale sempre molto curata. L’apporto del colore è più marcato e vario nelle realizzazioni pittoriche, dove si avverte la necessità di creare sensazioni tattili, in particolare nelle marcate linee di contorno e nell’uso del chiaroscuro, per supplire alla bidimensionalità della tela, mentre le “sculture” riflettono le tinte dei materiali lavorati. Se l’intento di Paolo era quello di comunicare con la sua poetica l’urgenza di uscire dalla propria esperienza individuale ed aprirsi a valori universali, insegni per tutti il Leopardi del “Elogio degli uccelli”, ritengo che vi sia riuscito a pieno titolo e con merito obiettivo.


“Gli sguardi esistenziali di Paolo Soro” (2018)

di Massimo Pasqualone

Per La fortezza dell’arte, nelle prestigiose sale della Fortezza Borbonica di Civitella del Tronto, ho pensato di invitare Paolo Soro, già docente di tecniche di fonderia all’Accademia di Belle arti di Perugia e attualmente docente di Tecniche di Fonderia presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino. In questa mostra, dal titolo “Orizzonti possibili”, l’artista ci presenta molte opere patinate a “ruggine”, sia autentica che pittorica, intesa come metafora dell’esistenza umana. L’indagine dello scultore sardo è intesa, infatti, ad un disvelamento della condizione umana, che sempre più si rivela coperta dalla ruggine delle convenzioni economiche e sociali e che forse solo l’artista, il vero artista, riesce a leggere in profondità, e lo può fare perché l’artista, questo artista, vive il tempo della felicità e della malinconia, il tempo del dolore e della gioia, il tempo della vita attraverso il fare dell’opera dell’arte, perché l’opera d’arte da un lato si fa, si realizza concretamente, dall’altro si pensa, in quanto pura concettualità, idea, dialettica tra forma e contenuto e per questo la missione dell’artista è esigente e per questo l’opera d’arte, ci dice Umberto Saba, è sempre una confessione, è uno svelamento, è un togliere, appunto, la ruggine. Del tempo, della storia, della vita. Tesa tra drammaticità e singolarità, l’esistenza umana si legge solo attraverso miti e riti essenziali, correlativi oggettivi come la presenza, in talune opere, di un uovo dorato come elemento che richiama ad un simbolo della vita (la doratura o l’oro in alcuni pezzi diventano elementi di luce in contrasto alla ruggine e alla metafora a cui viene legata). Davvero la vita umana vive, da sempre, il bipolarismo della tristezza e della gioia, affronta, come alcune opere ci mostrano, il mare dell’esistenza, in cerca di approdi saldi e sicuri. L’analisi di Soro è di tipo artistico-sociale, intendendo l’arte come impegno e missione, come scandaglio di questo grande mistero perché, con le parole di Simone De Beauvoir, “Esistere, è osare gettarsi nel mondo.” Sempre e comunque!


Biennale di Viterbo 2022

“dal testo di presentazione per Biennale di Viterbo” di Maurizio Cesarini

Paolo Soro pone questioni che attengono al tema dell’esistenza declinata attraverso gli aspetti ontologici e metafisici. Adotta la forma dell’arte per evidenziarne il valore educativo e sociale, senza dimenticare la quotidianità ed il valore della scelta personale legata alla libertà, la sofferenza, la nostalgia, aspetti che questa assume nelle forme relazionali. L’allusività di questi sensi si esprime attraverso l’adozione di una rigorosa sintesi formale.